giovedì 25 aprile 2013

Pensieri sparsi su Kafka



Parliamoci chiaro: sono di fronte ad un'impresa del tutto inaprocciabile e per la quale, per dirla con le parole di DFW, sono ampiamente sottoqualificato.

Occorre che ribadisca questo concetto perchè non sembri un vuoto attestato di falsa modestia prima che inizi a sciorinare cultura in materia e a spiegare Kafka al mondo; absit iniuria verbis.

Il procedimento logico vuole allora che spieghi con quale intento nascano queste parole.
Molto semplicemente ho bisogno di annotare e contestualmente organizzare tutti i germogli che le pagine di Kafka hanno fatto fiorire nella mia testa.
In parole povere non parliamo di Kafka, ma di quello che Kafka ha fatto a me, prima che tutto vada perso nell'oblio.

Premetto che queste righe saranno verosimilmente molto confuse, come le mie idee, anche se conto di arrivare in fondo per poi tentare una riorganizzazione razionale di quanto detto.

Punto 1:

Leggo "il Processo" e mi rendo conto dopo le prime pagine di quanto poco questo libro parli di processi, legge e mondo giudiziario. O meglio ne parli e anche estensivamente ma che sia riduttivo, se non offensivo, ritenere che parli solo di, o sia incentrata su, questo.
Alla fine del libro, dopo una lunga serie di porte che si aprono per dare accesso ad altre porte, si può ritrovare il tema della legge, ma che probabilmente bisognerebbe chiamare "Legge" e quindi saremmo in tutt'altro campo.

Punto 2:

Vado avanti nella lettura del libro e già nel secondo capitolo ho un'epifania (invariabilmente frustrata da parti successive del romanzo): quest'uomo è colpevole, come tutti gli uomini. Tra le pagine del romanzo comincia a farsi largo a spallate nella mia testa questa "verità".
K. rifiuta con fiero senso di superiorità l'idea di essere giudicato, ma ai miei occhi questa reazione così apparentemente licea diviene invece un'affermazione di solipsismo e superbia. Una cocciuta chiusura rispetto ad una realtà che, per quanto ostica e apparentemente illogica, ha da sè per l'appunto la forza di essere reale.

Punto 3:

Le pagine del romanzo proiettano una sensazione di profonda asfissia. Immagino che tutto questo serva a creare il "setting" adatto  all'evoluzione della storia. I continui soffocamenti dovuti all'aria stagnante, gli spazi angusti e bui,  le discussioni al lume di candela trasmettono una condizione di tremenda infelicità e impossibilità alla realizzazione personale.
Se questo aspetto sembra tutto sommato abbastanza manifesto, non so decidere se ci sia qualcosa di più, un rimando alla psicopatologia, al panico, alla sensazione di sentirsi costretti, di mancanza di fiato.
Lo troverei un magnifico spunto per poter rileggere tutta la storia alla luce nuova della malattia, ma non vorrei invece spingermi nell'autoerotismo.

Punto 4:

Un sentimento potente che il romanzo mi trasmetteva durante la lettura era quello della solitudine. Tutto il mondo descritto è assoutamente sbilanciato dalla prospettiva molto schiacciata del protagonista. Anche i personaggi che parteggiano per lui sono sostanzialmente effimeri e non rappresentano mai un elemento di reale conforto.
Ci si ritrova ad essere maledettamente soli, sempre e comunque, con i propri guai ma soprattutto contro la resa dei conti finale, contro la morte. Viene da citare De Andrè quando dice "cari fratelli dell'altra sponda cantammo in coro già sulla terra amammo tutti l'identica donna partimmo in mille per la stessa guerra, questo ricordo non vi consoli quando si muore si muore soli".
Un punto però mi preme sottolinearlo: qui c'è una dicotomia sentimentale ineludibile per il lettore. Come quando si guarda Melancholia di Von Trier, la solitudine della condizione umana è enormemente lenita dalla vicinanza che in quel momento ci offre chi ce la sta raccontando.
Questo ricordo non ci consoli..

Punto 5:

Una sensazione diffusa di misoginia è presente nel libro. I rapporti con l'altro sesso sono superficiali, utilitaristici, castranti. Non mi è perfettamente noto il contesto culturale (nè per la verità quello personale) in cui Kafka ha concepito i suoi testi, perciò mi viene difficile capirne l'esatta collocazione nel romanzo.
Ciò che è sicuro è che l'amore non sembra rappresentare in alcun modo nè il fine nè il mezzo della salvezza, e il sesso è un'affermazione personale e maschile.
Questo, attenzione, non vuol dire che le figure femminili siano insignificanti, anzi c'è un indugiare sostanzioso sull'infermiera dell'avvocato anche se, a parte alcune congetture (*), mi è rimasta piuttosto oscura la sua figura.
A questo punto ciò prova soltanto quanto io dovrei tacere di un argomento così complesso e vasto conoscendolo così poco.

Punto 6:

A mio giudizio in quest'opera c'è un riferimento evidente al potere. I rapporti tra i personaggi sono di forza, sono esclusivamente gerarchici. E la gerarchia non è neanche tanto celata ma piuttosto violentemente sbattuta in faccia a chi è costretto a sottostare.
Il mondo di K.  è regolato dalla forza come dimostra l'incongrua violenza verbale di alcuni dialoghi.
K. non si dissocia mai da questa realtà, di cui è carnefice prima di essere vittima, forse perchè Kafka non riteneva la sua società capace di fare autocritica.

Punto 7:

Siamo a quello che è secondo me il vero perno di tutto il romanzo: la Spiritualità.
E' un terreno per me molto scivoloso e credo oggettivamente complesso. Kafka è un ebreo e ciò rende ancora più inintellegibili tutti i possibili sottotesti teologici.
Quello che però mi è parso chiaro soprattutto nel capitolo del duomo è che il fine ultimo del libro sia interrogarsi sulla condizione umana rispetto all'esistenza trascendente. Le forze oscure trasversali alla volontà dei personaggi ci fanno avvertire costantemente la presenza di quel qualcosa su cui è lecito interrogarsi ma non cercare risposte.

Punto 8:

Ho la presunzione di affermare che "il Processo" sia evidentemente un'opera incompleta. Secondo recenti calcoli Kafka non dovrebbe tornare in vita abbastanza presto da sbugiardarmi e perciò mi azzardo a dire che tra i capitoli iniziali e i capitoli finali c'è la differenza che corre tra un'opera finita (per quanto nella testa di un autore finita non sia mai) e una bozza messa giù come ipotesi di lavoro.
I capitoli si fanno via via più rapidi e approssimativi. La completezza e le miriadi di piccoli e apparentemente secondari dettagli scema progressivamente.
Posso capire perchè Kafka non avrebbe voluto che occhio mortale si poggiasse sulla sua opera incompleta, ma sarebbe stato un tremendo peccato.
In particolare non ritengo che il finale del romanzo mantenga le premesse e la tensione così sapientemente preparata nella parte iniziale. Mi sembra troppo poco, troppo piccolo, non sufficientemente pesante per bilanciare l'opera.
Infine, nota a margine, ho sognato più volte di ritrovarmi per le mani "Il Processo" e leggere un finale completamente diverso, tanto da farmi quasi svegliare convinto di averlo letto realmente.
Ciò ovviamente getta una luce inquietante su chi scrive.

Punto 9:

C'è un passaggio, bellissimo nel romanzo in cui si racconta la parabola di un guardiano e dell'uomo che vuole accedere alla Legge. Il solo pensiero di approcciare criticamente questo episodio mi da l'emicrania. In particolare però mi ha colpito la capacità di capovolgere completamente la lettura della parabola a seconda del punto di vista. Salta fuori che il guardiano è servo del "guardato" in quanto costretto a "guardarlo" e quindi funzione dello stesso. Questa impeccabile osservazione non appare così ovvia inizialmente. Il guardiano ci viene quindi descritto come triste, senza che ne sappia il motivo. Il punto è che il guardiano è triste per questa mancanza di libertà e ne soffre pur senza averne nozione, come se ad un livello profondo fossimo in grado di capire tutte le cose e quindi anche soffrirne, ma non sempre siamo in grado di portarle ad un livello epicritico.

Punto 10:

Ho letto con grande impegno e sforzo cognitivo le pagine di DFW sull'ironia in Kafka, ma alla fine non sono sicuro di aver capito veramente, lo ammetto senza indugi.
Tuttavia non posso smettere di pensare a Kafka che fatica a trattenere fluviali risate mentre legge il primo capitolo del "Processo".
Mi piacerebbe mettere quel capitolo nelle mani di dieci persone e chiedere loro di leggerlo mentre io studio i loro volti. Sono disposto a pagare tanti, sporchi e maledettissimi soldi se qualcuno di loro prorompesse in una singola spontanea risata.
Temo che l'ironia di Kafka, oltre ad essere notevolmente lontana dal nostro comune concetto di ironia, sia anche tremendamente complessa, o meglio semplice, nel senso che, come spiega meritoriamente DFW, si permette di scherzare su cose che non fanno affatto ridere, o almeno non fanno ridere se non si è disposti a guardare dritto negli occhi la realtà.

Non punto 11:

Infine una piccola nota personale: ho sinceramente provato piacere fisico nel leggere le pagine in cui Kafka descrive la salute malferma dell'avvocato di K. Fare diagnosi di scompenso cardiaco attraverso il racconto mi ha restituito una soddisfazione professionale che stento a trovare nel mondo di tutti i giorni.



* come se tutto il post non fosse poi solo un'enorme congettura. Il punto è che in questo caso le congetture sfiorano il ridicolo con l'infermiera rivisitata come una Maria Maddalena dei crocefissi (processati) e il concetto del perdono che viene elargito senza richiesta.

giovedì 28 febbraio 2013

Maturità Morale



Ho sempre pensato che il percorso dell'umanità fosse assimilabile a quello del singolo individuo, con un'altra scala di valori sul piano temporale ovviamente.
Ho portato dentro di me questa convinzione al punto da darla per certezza anche per gli altri.
Forse non è così e forse molti non pensano affatto che sia così.

D'altra parte si potrebbero eccepire una serie corposa di "eccezioni", abbastanza da far traballare la regola stessa.
Sarebbe innanzitutto più corretto parlare magari di storia del pensiero occidentale. E poi dove collochiamo, con precisione, il pensiero classico nelle tappe evolutive individuali?

L'analogia viene forse dal fatto che la storia del pensiero può essere vista come un'acquisizione graduale di consapevolezza, chiaramente da una prospettiva positivista.

Se il pensiero stesse seguendo, come nonostante tutto continuo a credere, un percorso evolutivo saremmo nel pieno della nostra crisi adolescenziale.
Non un bel momento per essere (più che esistere) per uno che ha odiato quella fase della propria vita.

Nella adolescenza il mondo esterno comincia a sfaldarsi come salda certezza per lasciare posto alle prime, e a volte sconcertanti, acquisizioni sulle dinamiche che regolano l'universo delle relazioni.
E' il momento della fuga da quel sistema di responsabilità e preccupazioni che comincia a delinersi all'orizzonte.

Quanto poco riflettiamo sul termine "distrazioni"? Le influenze tenaci dell'adolescenza impediscono il pieno compimento della maturazione di molte persone.. almeno di quelle che mi circondano.

Perchè dobbiamo "distrarci"? Perchè andare ad un concerto è una "distrazione"?
Suonerebbe meno rassicurante se ci dicessero (chi poi?) che ci stanno "distraendo" mentre ci rubano in casa, ma ad ogni modo non è così, sfortunatamente, perchè è più complesso.

Come molti sono affascinato dalle figure forti, travolgenti. Le persone che sembrano aver trovato una loro stabilità nel mondo dopo la tempesta adolescenziale.
Come fanno quelle persone a trovarsi così a loro agio nel mondo delle responsabilità? Perchè non hanno bisogno di distrazioni? Come è possibile che trovino soddisfazione e si compiano?

Ho fatto subito mentalmente il parallelismo tra quanto appena detto e le elezioni politiche da pochissimo trascorse.
Senza divenire assillante ma ho notato il tentativo embrionale di aumentare il livello di consapevolezza e responsabilità. Un tentativo timido ma inequivocabile come quando da bambini si prendeva per le prime volte la parola a tavola per partecipare alla discussione dei grandi suscitando mezzi sorrisi e sguardi benevoli.

Non posso dire cosa ne sarà di questo adolescente, un tempo che già non mi appartiene porterà il verdetto.

martedì 25 ottobre 2011

What more?



A volte uno si chiede, cosa succederà dopo la morte? Poi subito dopo pensa: cosa mangerò stasera?
Ieri sera, in ospedale, ho visto compirsi il miricalo. Sono rimasto a digiuno! Niente cena (tranquilli, ho trovato dei grissini quando tutto sembrava perso).

Senza cena mi sono ritrovato solo con il: cosa c'è dopo la morte?
Allora mi sono dato la seguente risposta: niente.

Non vorrei sembrare troppo discorsivo, ma la risposta è niente.
E' l'unica risposta che soddisfa la prova del nove, ovvero: cosa potrebbe esserci?
Qualsiasi altra risposta a questa domanda è ridicola.

Vi immaginate seriamente un poi? Cos'altro dovremmo dirci? Ancora?
Non avete idea di quanto io sia già al limite adesso. L'appiglio che mi tiene sano di mente è sapere che potrò staccare la spina e salutare quando sarò sovra-saturo.

Se ci fosse un poi avrei la possibilità di liberarmi di voi, eventualmente? Oppure neanche più questo? Costretto a godere della luce eterna e bla bla, magari reincontrando il mio parrucchiere che mi parlerà dei suoi incontri extra-coniugali combinati grazie a facebook.

In questo momento vedo la morte come un passaggio verso una fase più tranquilla della vita non come la fine. Come se uno si trasferisse in campagna.
Ma uno a un certo punto non sente il bisogno di compagnia? No, il bello dei defunti è che stanno in campagna senza rimpianti. Ecco fatto, tutto torna, la pace.

mercoledì 24 agosto 2011

I want to tell you a story



.. about a little man, if a i can..

Questo piccolo uomo, come in un romanzo di Verga, si è sentito forte abbastanza per sfidare il mondo, per abbandonare l'ostrica.

Ironically

il mondo si è scatenato contro di lui, sfasciando sistematicamente quello che aveva costruito fino a quel punto

Fine

Let's find the point:

la stessa storia può impartire lezioni diverse, a seconda di quello che ci si vuol leggere. Ad esempio:

-mai, e dico mai, abbandonare l'ostrica. Non sognare. Vivi nella paura.

-non costruirti un'ostrica, non ti servirà. Vivi il presente.

-la prossima ostrica sarà migliore. Si chiude una porta e si apre un portone.

Nessuna di queste, però, è la mia conclusione.

Questa storia, che potrebbe essere uno straordinario romanzo secondo me (adoro le opere stringate..), insegna che il percorso di costruzione di se stessi è estremamente complesso.
Il suo metro di misura? Il silenzio.
E' drammaticamente osceno che molta gente si abbandoni al proprio destino.
Purtroppo è totalmente perdente anche il tentativo di combatterlo.
Nel mio piccolo sto provando ad accettare egoismi, razzismi, violenza e quant'altro. Spero di poterli gestire successivamente.

Torniamo al protagonista, ben caratterizzato, della nostra storia. Cosa avrebbe dovuto fare?
Accettare una verità molto scomoda su se stesso. Le correnti che lo hanno portato fuori dall'ostrica sono partite dall'interno, non l'hanno semplicemente attirato.
Nel silenzio avrebbe potuto ascoltare la sua ambizione, poi avrebbe dovuto chiedersi da dove nasceva questa spinta centrifuga.
Sto parlando del sentirsi realizzati. Di quella sensazione che crediamo proveremo quando avremo trovato il nostro posto nel mondo. Sto straparlando.


Riflessioni postume: questa storia sarebbe un'ottima favola di Esopo. Mi basterebbe sostituire l'uomo che abbandona l'ostrica, con una sogliola. Magari una sogliola eroinomane (eroinosogliola) così da rendere la storia più accattivante per i bimbi di oggi e di domani.

lunedì 22 agosto 2011

Senso di colpa



Magari non sarò riconosciuto come uno psicologo di fama mondiale* ma vi impartirò ugualmente una fondamentale lezione di psicologia.

*(sebbene io debba precisare a questo proposito che una conoscenza della mente umana paragonabile alla mia, non si veda dai tempi di Caligola, il quale, come ricorderete, nominò senatore il proprio cavallo col fine di slatentizzare l'invidia del pene negli altri senatori)

Tema: Il senso di colpa.

Sviluppo: è incredibile come questo sentimento sia alla base della sofferenza di milioni di persone. I sensi di colpa ci tormentano di continuo, ci opprimono.
Bassa autostima? Insicurezza? Morboso attaccamento al care-giver durante i primi anni di vita? Perché il rimorso delle nostre azioni non ci dà tregua?
Spesso è come se sentissimo un enorme fardello gravare su di noi; come se ci fosse impossibile capire l'origine di questa ancestrale sofferenza. Perché provo cotanto rimorso, viene da chiedersi.

Ebbene:

la vera ragione che sottende al vostro senso di colpa è che siete colpevoli di qualcosa!


Persino banale quando una grande mente lo chiarifica.

venerdì 5 agosto 2011

Memories



Quella bestia era ancora lì. Come tutte le mattine. Ritta sulle sue zampe posteriori. Cerulea sotto il sole. Lo sguardo insolente, come per irriderci. Era simile ad un comune roditore, ma ben più grande. Diventava furiosa se qualcuno si avvicinava. Non riesco nemmeno a ricordare il giorno in cui si presentò per la prima volta. Ormai era lì da sempre. Ricordo che un giorno ci procurò delle ferite profonde, ci mancò poco perché ci uccidesse.


Così, come ogni giorno, ci lanciava la sua sfida. Sfida che avevamo a nostre spese imparato a non raccogliere. Dopo averle tentate tutte, la ignoravamo quasi: rassegnati.

Non che mi sarebbe dispiaciuto mandarla via, anzi sarebbe stato un grosso sollievo. Direi quasi che le nostre vite ne avrebbero giovato sensibilmente. Infatti, anche se non ricordavo più cosa si provasse a non vederla, sentivo che saremmo stati meglio. Ciò che si prova liberandosi di qualcosa è ben diverso dal vivere senza aver coscienza che quella cosa esista.

È vero anche che ormai la ignoravamo gran parte del tempo, ma era impossibile passare un’intera giornata senza considerarla. In qualsiasi momento infatti potevi ritrovartela davanti, con il colore del suo manto che ti restava impresso a lungo. Tutto quello che potevi fare era cambiare strada.

Si, avremmo voluto liberarcene. Ma come si fa?


19-05-2006

Golden Rule



Sottotitolo: la regolina magica del potere.

Sono quasi sicuro di poter risolvere qualsiasi problema con questa nuova geniale intuizione.

Il potere è una cosa deformante.

Andrebbe ottenuto relativamente presto per dare gratificazione e spinta.
La possibilità di raggiungere una meta genera sentimenti ed energie positive. Non si può vivere tendendo ad un obbiettivo troppo lontano.

Cosa ancora più importante però è che il potere andrebbe lasciato poco dopo averlo ottenuto. Non si dovrebbe passare la mano solo in punto di morte. E' importante che esista un meccanismo di limitazione dell'Ego, proprio perché, come da intestazione, il potere è deformante.
Sarai costretto a cedere il potere ed avrai ancora un pezzo di strada davanti: ti conviene fare lo stronzo?

Nessuno deve sentirsi intoccabile.
Tutti ciclicamente dovremmo dipendere da un altro.


Precisazioni: Metto le mani avanti. Uno potrebbe dire: non deve proprio esistere il potere! E' sbagliato che un uomo ne comandi un altro. Può solo esistere l'anarchia alla De Andrè; altrimenti il mondo resterà sempre quel che è.

Nice theory, in parte anche condivisibile ma eccessivamente romantica. Purtroppo pare che all'uomo sia necessario un ordine per generare ordine. Basta che questo non diventi, come spesso capita, un ordine tra gli individui, ma sia solo un ordine di ruoli.

Prima di incartarmi troppo direi che basta così, non devo altre spiegazioni ad un finto obiettore, generato da me stesso e che cita De Andrè per argomentare contro di me.